Ti hanno insegnato a fidarti. Del tuo Paese. Delle istituzioni. Della legge. Ti hanno detto che “non hai nulla da nascondere”. Che se sei onesto, non hai nulla da temere. Ma non è vero.
I governi non lavorano per te. Non sono progettati per proteggerti. Non rispondono al tuo interesse personale. Rispondono all’interesse nazionale. E l’interesse nazionale non coincide quasi mai con la tua libertà individuale. Sei un dato. Sei un rischio. Sei una variabile da contenere.
Quando parliamo di "Stato", non stiamo parlando di un volto. Parliamo di un sistema. Un’entità impersonale che si muove per logiche macroeconomiche, geopolitiche, strategiche. Non importa se sei innocente. Importa se sei rilevante. O scomodo. La sorveglianza non è costruita per proteggerti dal crimine. È costruita per proteggere il sistema da te, se diventi imprevedibile.
Ogni telecamera, ogni controllo aeroportuale, ogni legge sul monitoraggio delle comunicazioni è giustificata come “necessaria per la sicurezza nazionale”. Ma qual è la vera definizione di sicurezza? E per chi?
Un cittadino consapevole è un problema. Un cittadino che cifra, che anonimizza, che non usa Google, che legge i log, che non si fida, è un punto fuori dalla curva. È ingestibile. È sospetto per definizione.
È per questo che il cittadino perfetto è quello che si autotraccia: ha lo smartphone sempre acceso, Google Maps aperto, assistente vocale attivo, conti elettronici collegati a tutto. Ogni azione lascia una traccia. Ogni preferenza viene registrata. E se un giorno ti sposti fuori dai margini, quelle tracce diventeranno prove. O pretesti.
In un mondo dove tutto è monitorato, l’arma più potente non è la polizia. È il racconto. La realtà non esiste più in quanto tale: esiste solo ciò che viene detto, ripetuto, amplificato. I media mainstream non informano. Raccontano la versione autorizzata dei fatti. Un tempo il giornalismo era potere di controllo. Oggi è parte del potere. Giornalisti, editorialisti, opinionisti: la maggior parte non fa informazione, ma propaganda su commissione. Leggono il copione, lo adattano al target, lo servono al pubblico come verità assoluta.
Le vere notizie non passano nei TG. Le domande vere non si sentono nei talk show. I giornalisti che provano a scavare finiscono isolati, screditati, licenziati o peggio. Gli altri, quelli che obbediscono, vengono premiati: più visibilità, più incarichi, più prestigio. Così funziona il meccanismo. Un ecosistema perfettamente oliato dove chi controlla la narrazione, controlla la percezione collettiva. E se controlli la percezione, controlli le scelte. I comportamenti. Le emozioni.
Parlano di “fake news” per delegittimare ogni voce fuori dal coro. Ma le fake news più pericolose non sono i post su Telegram. Sono quelle con la sigla RAI, SKY, TGCOM in sovrimpressione. Quelle costruite con mezze verità, con parole manipolate, con omissioni chirurgiche. Quelle che creano mostri e poi li combattono. Quelle che ti dicono di chi aver paura, cosa pensare, chi votare, cosa comprare. Quelle che decidono cosa è “bene” e cosa è “male”, senza che tu possa scegliere davvero.
Rifiutare questa narrazione non è complottismo. È autodifesa cognitiva. È prendere atto che l'informazione ufficiale è filtrata, deviata, industrializzata. E che per capire davvero il mondo, devi smettere di guardarlo in TV. Devi cercare fonti diverse, ascoltare chi viene censurato, leggere tra le righe. Devi riappropriarti della tua capacità critica, dell’intuito, del dubbio. Perché chi controlla le parole, controlla i pensieri. E chi controlla i pensieri, ha già vinto senza combattere.
Ti diranno che esiste una legge che protegge i tuoi diritti. Ma le leggi cambiano. Le emergenze arrivano. I diritti si sospendono. È già successo. Succede ogni giorno.
Il problema non è la legge in sé. È che la legge è uno strumento del potere, non una barriera contro di esso. Quando i governi vogliono vederti, lo fanno. E se serve, cambiano le regole per farlo.
Non servono manganelli o interrogatori. Basta il tuo feed di Instagram. L'autocensura è il nuovo controllo. Il silenzio indotto è la nuova repressione. E il modo più efficace per controllarti è farti credere di essere libero.
Non sei tu a scegliere cosa vedere. Lo decide un algoritmo, ottimizzato per l’attenzione, per l’engagement, per la manipolazione. E quell’algoritmo non risponde a te. Risponde a chi paga. O a chi comanda.
La legge non è la giustizia. La legge è solo un insieme di regole scritte da chi ha il potere. Spesso coincide con la giustizia. Ma non sempre. E quando non coincide, obbedire ciecamente alla legge diventa complicità.
La storia lo dimostra. C’è stato un tempo in cui era legale discriminare, segregare, deportare. Era legale impedire a un essere umano di sedersi su una panchina perché aveva la pelle diversa. Era legale rinchiudere, marchiare, sterminare, nel nome di un’ideologia di superiorità. Era tutto perfettamente conforme alla legge. Ma era morale? No. Non lo era. Non lo è mai stato.
Il problema è che quando le leggi sono ingiuste, non vengono percepite come tali fino a quando è troppo tardi. Le persone obbediscono. Perché sono state abituate a pensare che “legge = giusto”. Ma la moralità non nasce nei tribunali. La moralità è una voce interna. È coscienza. È empatia. È la capacità di dire “questa cosa è sbagliata” anche se tutti la stanno facendo. Anche se è permessa. Anche se è imposta.
Oggi non viviamo più in un mondo di apartheid o leggi razziali. Almeno non nei termini espliciti del passato. Ma viviamo in un mondo dove altre leggi, più sofisticate, più silenziose, ci schiacciano con la stessa efficacia. Leggi che legalizzano la sorveglianza di massa. Leggi che autorizzano governi e aziende a registrare ogni cosa che facciamo, diciamo, leggiamo. Leggi che definiscono “terrorista” chi dissente, chi protesta, chi cripta. Leggi che proteggono la proprietà intellettuale delle multinazionali, ma ignorano il diritto alla privacy dei singoli. Tutto perfettamente legale. Ma è giusto?
Quando ci dicono “non hai nulla da temere se non hai nulla da nascondere”, stanno vendendo un concetto di legge disumanizzato. Un’idea in cui la libertà non è più un diritto, ma una concessione. In cui essere osservati è normale. In cui essere tracciati è conveniente. In cui la sicurezza viene prima della dignità.
Ma la sicurezza senza libertà è solo una gabbia ben illuminata. E chi vive in una gabbia finisce per dimenticare cosa c’è fuori.
Non è illegale voler essere invisibili. Non è immorale voler proteggere se stessi da un sistema che registra tutto. La vera immoralità è accettare l’ingiustizia solo perché viene firmata da un’autorità. La vera responsabilità è dire: non tutto ciò che è legale è giusto. E non tutto ciò che è giusto è legale.
La moralità deve guidare la tecnologia. La coscienza deve guidare la disobbedienza. E quando la legge va contro la dignità, la legge si sfida.
C’è un esempio recente, lampante, di come la legge possa trasformarsi in oppressione. È successo sotto i nostri occhi. Nel 2020. Si chiamava pandemia. Nel nome della sanità pubblica, milioni di persone hanno visto cancellati, in pochi mesi, diritti conquistati in decenni: libertà di movimento, diritto al lavoro, libera scelta sanitaria, libertà di riunione, persino l’accesso all’istruzione o alla socialità. Tutto era giustificato. Perché “è per il bene di tutti”.
Ma chi ha definito quel bene? Chi ha deciso cosa fosse necessario, e cosa fosse eccessivo? Chi ha stabilito che migliaia di persone potessero perdere il lavoro per non aver accettato un trattamento sanitario? Chi ha autorizzato la discriminazione sistematica nei confronti di cittadini sani, colpevoli solo di non voler aderire a una logica binaria? Chi ha deciso che si potesse impedire a qualcuno di abbracciare un parente, di seppellire un genitore, di entrare in un bar o su un treno?
Erano leggi. Ordinanze. Decreti. Tutto regolare. Tutto legale. Ma era morale? No. Non lo era. Perché la legge, quando non è bilanciata dalla coscienza, diventa uno strumento di dominio. E il potere, quando non incontra resistenza, si abitua a pretendere obbedienza.
Il risultato? Milioni di persone isolate, impoverite, sorvegliate, psichicamente annientate. Un’intera generazione educata alla paura, al sospetto reciproco, all’idea che la libertà sia pericolosa. Il tutto nel nome della “sicurezza”. Una sicurezza che ha causato più danni della minaccia che voleva combattere.
È in momenti come questi che si capisce la differenza tra legge e giustizia. Tra autorità e verità. Quando il sistema si arroga il diritto di decidere tutto su di te — il tuo corpo, i tuoi spostamenti, i tuoi rapporti, le tue scelte — allora non stai più vivendo. Stai obbedendo. E obbedire non è sempre giusto.
Il COVID è stato il banco di prova perfetto per il controllo sociale di massa. Chi ha resistito non lo ha fatto per egoismo, ma per istinto di sopravvivenza morale. Perché ci sono momenti in cui dire “no” non è solo un diritto. È un dovere.
In Italia essere onesto, produttivo e libero allo stesso tempo è quasi impossibile. Lo Stato, invece di incentivare chi crea, chi costruisce, chi rischia con le proprie mani e le proprie idee, sceglie di punirlo. Ogni forma di iniziativa personale viene soffocata da un sistema fiscale progettato non per sostenere, ma per drenare. Aprire un’attività, lavorare in proprio, crescere da solo è un atto di coraggio. Ma in questo Paese è anche un atto di resistenza.
Le imposte dirette, indirette, regionali, comunali, le accise, l’IVA, le ritenute, i contributi INPS, i balzelli su ogni atto di vita lavorativa sono così tanti e stratificati da rendere impossibile un’esistenza libera nel rispetto completo della legge. Lavori dieci ore al giorno e vedi metà del frutto del tuo lavoro sparire prima ancora di toccare il conto corrente. E poi devi giustificarti. Devi documentare, dimostrare, certificare. Ogni passo, ogni spesa, ogni decisione.
E se hai successo, vieni colpito ancora di più. Vuoi comprarti un’auto di grossa cilindrata, non per ostentazione ma per passione o esigenza tecnica? Scatta la supertassa. Vuoi fatturare di più? Aumentano gli studi di settore, le aliquote, i controlli. Hai un'idea che può scalare? Prima ancora che tu possa respirare, sei impantanato in un labirinto di burocrazia che ti toglie energia, tempo, lucidità.
Così si genera il paradosso italiano: chi evade un minimo sopravvive, chi dichiara tutto muore lentamente. E non per colpa dell’illegalità, ma per difesa dalla legalità stessa. Una legalità malata, pensata da chi vive di redditi garantiti, e imposta a chi si spacca la schiena ogni giorno per generare valore reale. La pressione fiscale reale supera spesso il 60%, se conti tutto. E chi evade totalmente? In certi ambienti viene quasi premiato. Non ha leggi, non ha vincoli, non ha responsabilità. Chi invece cerca di essere pulito, trasparente, etico, viene spolpato.
Il risultato è una cultura del sospetto: il fisco come minaccia, l’agenzia delle entrate come arma di intimidazione, l’onestà come rischio e non come virtù. E in questo clima tossico, non c’è spazio per l’espressione libera dell’individuo. La fiscalità diventa censura economica. Non puoi costruire. Non puoi evolvere. Non puoi liberarti.
Certo, la tassazione dovrebbe servire a redistribuire, a garantire diritti, a sostenere i più fragili. Ma in Italia, troppo spesso, serve a finanziare sprechi, burocrazia, privilegi di apparati inamovibili. E tu, cittadino produttivo, sei solo la vacca da mungere.
La libertà, senza indipendenza economica, è una menzogna. E in questo Paese, la libertà di espressione imprenditoriale è sotto attacco costante. Sopravvive solo chi si muove nell’ombra. O chi è abbastanza furbo da non giocare secondo le regole.
Io non faccio del male a nessuno. Non cerco conflitto, non semino violenza, non vivo con odio. Ma se qualcuno cerca di farmi del male, ho tutto il diritto di difendermi. E se quella minaccia mette a rischio la mia vita, quella dei miei cari, la mia integrità fisica o mentale, ho il diritto — morale, naturale, primordiale — di fermarla. Anche se questo significa privare quella minaccia della sua vita.
In Italia, però, questo principio è spesso distorto. Chi aggredisce ha più diritti di chi si difende. Chi entra in casa tua armato, se viene colpito, può diventare la vittima. E tu, che hai agito per istinto, per paura, per salvarti, ti ritrovi sotto processo. Accusato. Criminalizzato. Trattato come un pericolo. Come se la tua vita valesse meno di quella di chi voleva distruggerla.
Ma il diritto alla difesa è il fondamento di ogni libertà. Una persona che non può difendere se stessa non è libera. È in balia del sistema, delle aggressioni, della burocrazia, della paura. E non si può vivere nella paura. La legge non può essere uno scudo per chi attacca e una gabbia per chi si protegge.
Non sto parlando di vendetta. Non sto parlando di giustizia fai-da-te, né di armi facili, né di violenza gratuita. Sto parlando di un principio sacrosanto: se sei aggredito, hai il diritto di sopravvivere. Con tutti i mezzi necessari. Con lucidità. Con fermezza. Con dignità.
Uno Stato che non riconosce questo diritto non protegge i cittadini. Li espone. Li rende vulnerabili. Li costringe a sperare che “arrivi qualcuno”, che “intervenga la legge”. Ma in quegli istanti, quando la minaccia è reale e presente, non c’è tempo per le carte bollate. C’è solo una cosa che conta: non morire.
Difendere se stessi non è un crimine. È l'ultima barriera contro il caos. Ed è un diritto che nessuna legge, nessun codice, nessuna ideologia può cancellare. Perché viene da prima di ogni Stato. Viene dall’istinto. E l’istinto, quando difende la vita, non sbaglia mai.
Chi vuole la pace, la vera pace, sa che deve essere pronto a difenderla. Non con l’odio. Non con la guerra. Ma con la consapevolezza che la libertà disarmata è una libertà fragile. Il cittadino che non può proteggere se stesso, né fisicamente né simbolicamente, è completamente nelle mani dello Stato. E quando lo Stato smette di essere garante e inizia a essere dominatore, non resta più nessun equilibrio.
La storia lo dimostra. Ogni regime tirannico nasce da un momento in cui il potere ha disarmato il popolo, fisicamente o psicologicamente. Quando solo le forze dello Stato possono usare la forza, la libertà dell’individuo diventa un’illusione concessa. Fino a quando conviene al potere concederla.
Il diritto di possedere un’arma non è un incitamento alla violenza. È una dichiarazione di equilibrio: io sono pacifico, ma non sono impotente. È il simbolo di una persona che non cerca lo scontro, ma non accetta la sottomissione. Che vuole vivere in pace, ma non a qualunque costo. Perché se la pace è solo silenzio e obbedienza, allora non è pace. È controllo.
In Italia questo discorso è tabù. Parlare di armi è immediatamente associato al fanatismo, alla follia, all’illegalità. Ma è solo un altro modo per spegnere un concetto profondo: la preservazione dell’individuo contro lo strapotere istituzionale. Non serve armarsi per combattere. Serve armarsi per evitare che qualcuno pensi di poter governare senza freni. Il disarmo totale della popolazione è il sogno di ogni regime.
Le armi, in una società matura e libera, non sono un pericolo. Sono un contrappeso. Un simbolo. Una garanzia. Non per attaccare. Ma per ricordare che nessun potere è assoluto. Nemmeno quello dello Stato.
Ma non tutte le armi hanno un grilletto. Oggi una delle armi più potenti, silenziose e sottovalutate è la conoscenza informatica. Chi sa usare la tecnologia in modo profondo, indipendente, consapevole, ha già un vantaggio immenso su chi subisce passivamente il sistema. Chi capisce come funziona la rete, non è più un nodo. È un architetto.
Sapere come navigare in anonimato, come cifrare i propri dati, come proteggere il proprio sistema operativo, come disintermediare la propria presenza online, come comunicare senza essere spiati, è una forma concreta di autodifesa. È un’arma etica, potente, necessaria. E come ogni arma, può essere usata per liberare o per controllare. Sta a noi scegliere da che parte stare.
Conoscere significa potersi staccare dal sistema. Poter dire “non mi serve Google”, “non ho bisogno di Windows”, “non do il mio numero a Facebook”. Significa avere gli strumenti per non essere dipendenti. Perché chi dipende è già controllato.
L’hacker etico, il tecnicamente consapevole, è il cittadino del futuro. Uno che non combatte con la violenza, ma con l’intelligenza. Uno che sa leggere il codice, che capisce cosa succede nel silenzio della rete, che può smontare e rimontare un sistema operativo come fosse una serratura. Questa è libertà. La vera libertà, oggi, passa da un terminale.
Possedere un’arma ti protegge dalla violenza fisica. Possedere la conoscenza ti protegge dalla schiavitù digitale. Un popolo armato di coscienza, cultura e competenza tecnica non è più governabile come massa. È un insieme di individui sovrani. E la sovranità personale è l’ultimo confine prima della schiavitù.
Non puoi cambiare il sistema. Non subito. Ma puoi imparare a muoverti al suo interno senza farti distruggere. La prima soluzione è mentale: non sentirti in colpa per voler sopravvivere. Se cerchi strade per ridurre la pressione fiscale, per proteggere i tuoi guadagni, per limitare lo sfruttamento legalizzato del tuo lavoro, non sei un evasore. Sei un sopravvissuto. Hai diritto a difenderti, a proteggerti, a costruire. Non devi sentirti sbagliato per non voler essere prosciugato da uno Stato che ti offre in cambio solo burocrazia, frustrazione e sospetto.
La seconda soluzione è tecnica. Studia, informati, organizza il tuo lavoro in modo intelligente. Apri la tua attività in regimi fiscali sostenibili, sfrutta le soglie minime, valuta regimi forfettari o cooperativi. Se puoi, delocalizza parte del tuo business in paesi dove il lavoro autonomo non è considerato un nemico. Automatizza, minimizza i costi fissi, proteggi i tuoi asset, diversifica le entrate. Costruisci una rete parallela: collaborazioni orizzontali, pagamenti in crypto (dove possibile e legale), decentralizzazione operativa. La burocrazia teme ciò che non può incasellare.
La terza soluzione è filosofica. Smetti di aspettarti che lo Stato ti salvi. Lo Stato non è la soluzione. Lo Stato, in molti casi, è il problema. Inizia a pensare in modo indipendente, radicale, libero. Non sei nato per pagare tasse fino alla pensione e poi morire. Se hai un talento, un’idea, un fuoco dentro: proteggilo. Non permettere che venga seppellito sotto il peso di leggi create per chi vive di rendita e non sa cosa voglia dire lavorare 12 ore al giorno per un sogno.
Chi ha creatività e iniziativa in Italia deve imparare a vivere come un hacker: usare le falle del sistema per non restarne schiacciato. Non si tratta di evadere. Si tratta di evolversi. Si tratta di giocare una partita impari, con astuzia, metodo e una visione più grande. La libertà non ti verrà concessa. Dovrai costruirla da solo.
E non dimenticare la lezione più importante: la moralità viene prima della legge. Negli anni '40 era perfettamente legale deportare esseri umani in nome di ideologie perverse. Era legale discriminare, schedare, sterminare. Eppure, nessuno oggi direbbe che fosse giusto. La legalità non è garanzia di giustizia. Spesso è solo un modo elegante per mascherare la violenza sistemica con l'inchiostro e il timbro.
Oggi non ti deportano in senso fisico. Ma se sei indipendente, creativo, non allineato, ti schiacciano lentamente: economicamente, socialmente, psicologicamente. Ti affamano con le tasse, ti isolano con la burocrazia, ti marginalizzano se non segui il percorso prestabilito. È un altro tipo di deportazione. Più raffinata. Più silenziosa. Ma lo scopo è lo stesso: normalizzare il controllo e punire la diversità.
Per questo la resistenza oggi non è solo politica. È economica. È culturale. È personale. Non si tratta di evadere il fisco. Si tratta di evadere da un modello che non ti vuole libero. Essere moralmente giusti, oggi, significa rifiutare un sistema che ti toglie dignità in nome di leggi scritte per difendere il potere.
La moralità non è un codice scritto. Non è una legge. Non è un regolamento. La moralità è una vibrazione interiore, una bussola che non ha bisogno di giudici, tribunali o sanzioni. È il principio più puro dell’essere umano: il rispetto reciproco, l’empatia spontanea, l’assenza di malizia. È il sapere dentro di sé, senza che nessuno ce lo imponga, che non si ruba, non si inganna, non si domina. Che ogni persona ha diritto alla sua dignità. Che ogni vita ha valore. Che l’altro è come te.
Per me, la moralità è questo: voler bene a tutti a prescindere, non per debolezza, ma per scelta. Non per obbligo, ma per naturalezza. Significa vivere senza l’intenzione di fregare nessuno. Significa aiutare se puoi, rispettare sempre, giudicare il meno possibile. Significa essere umani prima di essere cittadini, prima di essere consumatori, prima di essere soldati di uno schema.
Con questi principi, ogni legge diventa superflua. Perché chi vive nella moralità non ha bisogno di essere controllato. Non serve il fisco, non serve la polizia, non servono telecamere. Serve solo fiducia. Educazione. Esempio.
Certo, ci saranno sempre persone malvagie. Sempre ci sarà chi tradisce, chi sfrutta, chi calpesta. Ma non si può costruire il mondo sulla paura di pochi. Si deve costruire il mondo sull’aspettativa del bene, non sulla presunzione del male. E questo può iniziare solo da una cosa: l’educazione dei nostri figli.
Se insegniamo loro ad essere puri, limpidi, empatici, liberi dentro… se mostriamo con l’esempio che la forza vera è nella bontà, nella lucidità, nella coerenza, allora un altro mondo è possibile. Un mondo in cui la legge non serve perché l’etica è viva. Un mondo dove non si obbedisce per paura, ma si agisce per coscienza.
Non è utopia. È una possibilità reale. Ma parte da te. Dal tuo modo di vivere. Dal tuo modo di trattare gli altri. E dalla tua decisione, ogni giorno, di non diventare parte del sistema che vuoi cambiare.
Non si tratta di complottismo. Si tratta di riconoscere che le strutture di potere – statali, sovranazionali, aziendali – non hanno il tuo benessere come priorità. Hanno la stabilità. Il controllo. Il profitto. E tu, se ti muovi fuori dallo schema, diventi una minaccia.
Per questo serve l’anonimato. Per questo serve cifrare. Separare. Compartmentalizzare. Non per nascondere crimini. Ma per proteggere il poco di libertà che resta a chi si è svegliato.
La fiducia cieca è il nemico. Il dubbio è la tua unica difesa.